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Giovedì D’Autore – il Caricatore

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Rassegna cinematografica

Teatro Auditorium Supercinema di Chieti
Via Spaventa, 30/34 – 66100 Chieti
Tel. 0871 40 14 60

“i giovedì d’Autore” è una rassegna cinematografica con appuntamenti riservati ai film di qualità esclusi dai circuiti commerciali con particolare riferimento al cinema italiano ed europeo.

giovedì 2 febbraio 2006
 orario proiezioni: 18.00 – 20.30 – 22.30

Ingresso € 4,00
soci A.C.M.A.
€ 3,00.
Nei giorni di Rassegna sarà allestito un Punto Tesseramento

giovedì 2 febbraio 2006: Il caricatore di Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso, Fabio Nunziata


SCHEDA del Film

Sceneggiatura e Regia: Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso, Fabio Nunziata
Fotografia: Vincenzo Marinese
Montaggio: Fabio Nunziata
Musica: Daniele Sepe
Suono: Gaetano Carito
Prodotto da: Gianluca Arcopinto (col contributo di Mediaset)
(Italia, 1997) riedizione 2005
Durata: 90′

Sinossi:
La casa di Produzione Boccia Film è in grave crisi: ha un solo caricatore di pellicola e Fabio, il titolare, vuole a tutti i costi realizzare un film. Nell’impresa coinvolge gli amici Massimo e Ugenio. Dopo alterne vicende ( capiteranno anche nelle grinfie di un produttore fissato con il calcio) , il terzetto finirà in una piccola stazione dei carabinieri, dove, senza volerlo, un appuntato fornisce loro lo spunto decisivo per il film.
Trama:
Un terzetto di irriducibili cinematografari dilettanti e sfortunati cerca di realizzare un cortometraggio.

Storia piuttosto scontata che non aggiungerebbe nulla, se il corto in questione non fosse “Veronica”, opera di idiozia assoluta, mal cominciata e terminata ancora peggio, con la fine concreta della pellicola.

Storia e conclusione, queste del cortometraggio “Il caricatore”, applaudito e premiato al festival di Locarno.

Ottimi moventi, questi, per rimettere mano alla vicenda e permettere ai tre autori di “Veronica” di portare anch’essi in giro per tutta Italia la loro opera, di vincere ed essere applauditi ad un festival, e, cosa più importante, di rimettere mano anch’essi alla loro opera. “Il caricatore” si sviluppa così sempre in questa direzione, con l’inevitabile sovrapposizione di realtà e fantasia, che commuove e diverte, senza temere di essere bollata di inverosimiglianza. Lo si può fare, ma a proprio rischio e pericolo, perché il film è tutto vero, anche quello che non lo è.

Gli attori protagonisti del film ne sono anche registi e sceneggiatori, gli altri sono zii, cugini, amici, mogli e figli, nel ruolo di sé stessi, ma anche in ruoli completamente costruiti.

Una bottega artigiana che ricorda la leggenda di “El mariachi”, con costi contenuti e libertà d’improvvisazione sopra una sceneggiatura dettagliatissima.

Una splendida fotografia che si arricchisce del passaggio dagli originali 16mm agli attuali 35mm, e che imprigiona Roma ed il litorale romano, fino a trasformarle in una qualsiasi di tutte le città che oggi vanno di moda al cinema, da Napoli a Berlino. Ma, al tempo stesso, resta Roma, con i suoi abitanti, con i loro problemi, le loro attività e il loro tempo libero.

Così il lunedì sera c’è la partita di calcio, con il produttore Gianluca Arcopinto, impersonato da sé stesso, che costringe uno dei tre ragazzi a giocare all’ala destra (“la migliore avuta mai”), per finanziare il loro progetto; attorno a loro una selva di disperati, attori, registi, sceneggiatori, in attesa di un lavoro, tutti in calzoncini corti a soddisfare le velleità calcistiche dei produttori-padroni. Tutti ad inseguire, unico vero obiettivo della vita, il loro grande sogno, ossia, in questo caso, la voglia di cinema. Tra mestieri alienanti e realtà familiari da non trascurare, l’unico rifugio è una casa al mare ed un computer cui affidare la propria anima e le proprie paure. Sempre per il cinema, difficile, ingrato, prepotente, ma capace dell’ultima ipnosi, non fosse altro che per far contenta una vecchia zia, che chiede “Quand’è che fai un film?”, nella situazione più divertente e più malinconica, più vera e più immaginaria, di tutta la pellicola e di tutta una stagione di cinema italiano.

Senza scomodare Moretti o chissa’ chi altro, come faranno in molti, troviamo l’evidente impronta del cinefilo ovunque, più che per le situazioni o per lo stile, per il motivo di fondo, per l’aspirazione, per quella che i romantici chiamavano “Sehnsucht”, una spinta che permea tutti i novanta minuti, che da’ corpo ad un’opera con tutto il beneficio dell’eterogeneita’, di momenti alti e meno alti. Uno splendido lavoro, che va solo incoraggiato e che dovrebbe incoraggiare chi possiede il vero amore per il cinema, quello della fatica e degli ostacoli, della propria volontà e del proprio amore. Cucito con incredibile precisione da una magica colonna sonora, fatta di vecchie canzoni e di musiche originali composte da Daniele Sepe, capaci di aggiungere forza evocativa, senza uscire mai dalla strada intrapresa, grazie ad una varietà di scelta e di fantasia che si estende in ogni direzione, con una vetta che riesce a provocare i brividi: l'”Arrivederci Roma”, che accompagna il viaggio tra i pini, verso il litorale. Ed una crepuscolare, tenace presenza della morte che aleggia, silenziosa ed inevitabile, durante tutto il film e che affiora ogni tanto, in mezzo al rumoreggiare confuso della vita.

Critica:
“Tre giovani davanti e dietro la cinepresa per un super-8 gonfiato in 35 mm. Facciamo subito il nome degli ardimentosi: Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata. Non si sa se, in futuro, resteranno uniti oppure ognuno di loro prenderà la propria strada. I ‘collettivi’ da noi, si sciolgono in fretta. Ma, intanto, Nunziata Gaudioso e Cappuccio hanno portato a termine un’impresa impossibile: un film eterodosso che pur frutto di tre cervelli, sei mani e tre visi ha una sua unità stilistica. E, per l’estrosità di alcune trovate e la scorrevolezza del ritmo, spicca nel panorama abbastanza incerto dell’ultimo cinema italiano. (…) Cappuccio, Gaudioso e Nunziata sono riusciti a mettere insieme ‘Il caricatore’. Sembra un film venuto bene per caso. Tutto vi pare improvvisato. Tutto si direbbe frutto di sortite estemporanee, come per i graffiti metropolitani. E ai graffiti fanno pensare le immagini del film che, quasi a cogliere la precarietà delle avventure vissute dal trio, è in bianco e nero: contrastato, spuntinato, incostante e bellissimo. Ma i ‘segni’ incisi sulla pellicola sono, tutti, predisposti al millimetro, previsti da una sceneggiatura che, una volta tanto, può definirsi ‘di ferro’ “.(Francesco Bolzoni, ‘Avvenire’, 26 aprile 1997).
“Ennesimo caso di film che racconta come girare un film, ‘Il caricatore’ si affida a battute da sorriso tirato e a situazioni strampalate ma in fondo normali. I critici si sono subito dedicati a elencarne gli archetipi, prendendolo sul serio più di quanto sia giusto: perfino quando gli autori restano giudiziosamente distaccati dal loro prodotto, c’è sempre qualcuno a surrogarne a mancata enfasi. Cappuccio, Gaudioso e Nunziata volevano divertirsi, farsi un nome e aprirsi una carriera. Ci sono riusciti. Bravi. E anche se presto ‘Il caricatore’ si confonderà nel ricordo con altre opere d’esordio, il finale resterà in qualche memoria, con il maresciallo del carabinieri che spiega ai tre autori, appena derubati del sudato frutto del loro ingegno: “Siete giovani, i problemi della vita non sono questi…” (Maurizio Cabona, ‘Il Giornale’, 30 aprile 1997).
“Cinema e vita. Cinema fai da te. Film nel film. Commedia all’italiana, stra-riveduta e corretta, eccentrica, stravolta. Sarebbe un errore di valutazione e una leggerezza imperdonabile, scambiare ‘Il caricatore’ per un prodotto d’intrattenimento, per un divertito gioco sul (e con il) cinema. La vicenda dei tre protagonisti, tre dropouts del mondo della celluloide, tre sognatori precari del sottobosco cinematografico romano che cercano disperatamente di girare il loro primo film e si sottopongono ad ogni sorta di umiliazione e compromessi non è solo una sgangherata serie di sketches, né una caricatura. Ma anzi un film che, via via, va impregnandosi di uno spleen più intenso, di un sotto-testo quasi cupo, di un discorso sul tempo che passa, si deteriora, si estingue. Popolato di zie, parenti e amici, intercalato dalle musiche indovinatissime di Daniele Sepe, ambientato tra una Roma off e periferica e una Foce Verde tristissima, il film ha tutte le carte in regola per diventare un piccolo cult un Clerks tutto italiano”.

Fabio Bo, Il Messaggero

INTERVISTA AGLI AUTORI
a cura di Marco Medelin

Un film che riflette tanto la realta’, in un modo apparentemente cosi’ libero, quanto era presente nella sceneggiatura e quanto e’ stato improvvisato sul set?
Il film rispecchia certamente anche molti eventi vissuti durante la lavorazione, e’ un “work in progress” nella forma di un semi-documentario. Visto quello che succede potremmo definirlo un tragi-documentario, ma forse e’ piu’ giusto dire che si tratta di un documentario ribaltato in commedia. La sceneggiatura era comunque estremamente dettagliata, spesso con gli storyboard, ma abbiamo lasciato sempre la possibilita’ di aggiungere, come poi quella di togliere durante il montaggio.

Cosa e’ rimasto in questa versione definitiva del cortometraggio originario?
Il cortometraggio e’ l’inizio del film, esattamente i primi quindici minuti, fino alla scena in cui la ragazza si spoglia. L’abbiamo girato in un fine settimana del marzo ’95 nelle nostre case; a maggio dello stesso anno ha partecipato alla rassegna di corti “Arcipelago” che si svolge a Roma, dopodiche’ e’ andato a Locarno, dove ha vinto sia il premio della giuria che quello del pubblico. E’ nata cosi’ l’idea di continuarlo, trasformandolo in un lungometraggio, grazie all’intervento della produzione. L’abbiamo scritto velocemente, ma girato con molta calma in super16 e montato con altrettanta calma.

Dove sono stati girati gli esterni e quanto e’ costato il film?
E’ ambientato a Roma, Palestrina e Foce Verde, ed e’ costato circa 430 milioni, esclusi i compensi degli autori, grazie al fatto che la troupe era particolarmente ridotta.

Gianluca Arcopinto, quanto c’e’ di vero in questa ossessione prepotente per il calcio che sembri avere nel film?
Il calcio e’ una mia grande passione, perche’ credo che, oltre all’aspetto ludico e agonistico, sia un esatto specchio della vita: puoi capire il carattere delle persone da come giocano a pallone; quanto a me, tutti i lunedi’ sera sono impegnato nelle partite che avete potuto vedere nel film. Va detto pero’ che nella realta’ non gioco poi cosi’ male.

Qual’e’ il motivo ultimo di un film del genere, che puo’ essere scambiato tanto per una commedia, quanto per un mezzo documentario, con tutti questi attori non professionisti?
La ricerca di uno spontaneismo altrimenti impossibile e’ stata il vero motivo (oltre quello economico) della scelta di attori non professionisti. Il nostro obiettivo era quello di comunicare, oltre ad un divertimento che ci sembrava necessario per sostenere il film, ma che abbiamo tentato di non fare scadere nella banalita’, i nostri sogni, in contatto pero’ con altre realta’. C’e’ inoltre l’ossessione continua del tempo, della morte, che pervade tutto il film e che lo segue nel suo destino, nel suo volersi disperatamente e vanamente compiere.

Come si puo’ ottenere uno stile comune a tre differenti personalita’?
Per quanto riguarda lo stile, abbiamo trovato un terreno comune a partire dalle cose che non ci piacevano. Abbiamo deciso di girare in bianco e nero in super16, perche’ lo riteniamo estremamente funzionale alla storia, quella di tre poveracci. Ha un’aria autarchica, eroica, e poi gran parte del cinema sperimentale, innovativo e’ stato realizzato in bianco e nero. Quando l’abbiamo poi espanso nel 35mm, la carica evocativa ha acquistato una dimensione ancora maggiore. Sul set l’amministrazione del lavoro e’ venuta naturale, si creavano dei vuoti spontanei, e poi la poverta’ ci ha parecchio aiutato. Certo che il set e’ un po’ come una nave, ed in tre e’ davvero un casino, ma il desiderio di riuscire a portare avanti bene il film implica comunque la completa rinuncia ai ruoli.

Il caricatore, nonostante i rimandi cinematografici continui, appare, magari in maniera indiretta, un accusa implacabile ad una certa tradizione.
Noi pensiamo che una certa idea di professionalita’ che si e’ venuta diffondendo nel cinema sia divenuta davvero soffocante, ed e’ proprio a questa idea che abbiamo tentato di ribellarci, con l’amore, con la passione, che sono l’esatto opposto del mestiere inteso nel suo significato piu’ meccanico, piu’ arido ed opportunista. Noi non siamo dei dilettanti, certamente non come appariamo nel film, dove ci siamo piuttosto caricaturati: abbiamo acquisito negli anni una certa esperienza, chi lavorando in televisione, chi nella pubblicita’, chi nel montaggio, ma continuiamo lo stesso a credere nella necessita’ di rimettersi pienamente in gioco, per demolire convenzioni sciocche, cercendo anche di evitare compiacimenti fuori luogo.

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